Con la sentenza n. 36197/2023 le SS.UU si sono espresse sulla rilevante questione della prescrizione dei crediti retributivi nel pubblico impiego, pronunciando il seguente principio di diritto:
“La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato – in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l’inconfigurabilità di un metus. Nell’ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela”.
La suddetta pronuncia è stata resa in esito alla ordinanza di rimessione della ordinanza n. 6051 della sezione lavoro della Corte di Cassazione la quale, attraverso un analitico e argomentato excursus storico, ha evidenziato l’evoluzione del diritto del lavoro rispetto ai tempi della emanazione della L. n. 300/1970 o della L. n. 604/1966 nonchè il divario che si è andato creando con il trascorrere degli anni tra i principi, astrattamente corretti, su cui si era attestata la giurisprudenza anche costituzionale nel circoscrivere gli ambiti del concetto di stabilità del rapporto di impiego e metus del lavoratore e la realtà effettiva degli attuali rapporti di lavoro con la Pubblica Amministrazione.
In particolare, l’ordinanza, nell’evidenziare come di fatto sono stati utilizzati negli anni i rapporti di lavoro flessibili e precari, pone l’accento su quella sorta di “ricatto” cui viene ricorrentemente sottoposto il lavoratore precario laddove questi confidando in un più o meno prossimo accesso ad un qualche processo di stabilizzazione si adegua per ciò a sottostare ad un trattamento giuridico e normativo penalizzante sia sotto il profilo dell’incertezza della stabilità dell’impiego sia sotto il profilo del deteriore trattamento economico e contributivo (si pensi ai contratti a progetto o co.co.co. o anche ai rapporti di lavoro a termine di cui si è fatto un uso certamente sproporzionato e distorto rispetto a quello che le disposizioni normative prevedevano, determinando uno sviamento da quelle che erano le finalità di tali istituti). Trattamento deteriore che, oltretutto, laddove poi il lavoratore abbia effettivamente accesso alla stabilizzazione, non è passibile di ristoro, costituendo la stabilizzazione – secondo la giurisprudenza di legittimità – un già sufficiente mezzo risarcitorio (sic!) e negandosi sia il riconoscimento del servizio pregresso sia l’eventuale integrazione stipendiale e contributiva del periodo pregresso.
La Corte nell’ordinanza n. 6051/2023 ha così argomentato:
“[…] Non può ignorarsi come l’intera ricostruzione teorica delle decisioni della Corte costituzionale almeno dal 1972 in poi e delle Sezioni Unite fino al 2003 si fondi sull’assunto che sia la c.d. stabilità reale del rapporto di lavoro, sia pubblico sia privato, a giustificare un decorso immediato della prescrizione dei crediti retributivi.
[…]
Non può sottovalutarsi, poi, che la semplice c.d. stabilità reale non costituisce valido strumento di difesa contro la pluralità di strumenti ritorsivi nella disponibilità del datore di lavoro (si pensi alle fattispecie di mobbing e straining). […]
La situazione diventa ancora più complessa nei casi di rapporti a termine con la P.A., abusivamente reiterati nel tempo, che si traducano nell’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato a seguito di una procedura di stabilizzazione, come nella controversia de qua.
Infatti, Cass., SU, n. 575 del 2003, come si è detto, ha chiaramente affermato che la decorrenza delle prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto non è predicabile in quelle fattispecie nella quali i contratti, pur singolarmente legittimi (nella loro regolamentazione formale nonchè nella enunciazione dei motivi sottesi alle singole stipulazioni), vengano a risultare collegati, nella loro pluralità, dall’intento di eludere le disposizioni di legge sul contratto a termine perchè in questi casi si opera una conversione dei diversi contratti in un unico rapporto a tempo indeterminato … si presentano tutti i presupposti (esistenza di un unico rapporto lavorativo a tempo indeterminato e metus) che portano ad escludere – alla stregua dei pronunziati della Corte costituzionale – la decorrenza della prescrizione sino alla cessazione del rapporto lavorativo, dovendo la situazione psicologica del lavoratore essere valutata in concreto sulla base, cioè, della realtà di fatto che ha influenzato le sue determinazioni e che ha determinato uno stato di costante soggezione nei confronti del datore di lavoro per il perdurante metus di vedere interrotta la continuazione della serie dei rapporti di lavoro.
Pur dovendosi riconoscere alcune differenze strutturali, questa situazione è del tutto analoga, da un punto di vista socioeconomico, a quella del dipendente a tempo determinato di una P.A. (con rapporto di diritto pubblico privatizzato) in ipotesi di successione di una serie di contratti a termine seguiti da una regolarizzazione, tramite concorso o per legge, presso la medesima P.A. La reiterazione dei rapporti, oltre che frequente, è spesso illegittima e pone il lavoratore, in base ad una valutazione ex ante, in uno stato di soggezione assoluta, perchè egli ben sa che solo accettando tale reiterazione da ultimo potrà eventualmente essere assunto dalla P.A. Il rapporto è sostanzialmente, anche se non formalmente, unitario, e la stabilizzazione, quando avviene, certifica una condizione che in fatto esisteva da tempo. Il limite rappresentato dall’art. 36, comma 5, citato, non è, poi, più operativo, in quanto legalmente rimosso proprio per regolarizzare i dipendenti precari. […]
La reiterazione dei contratti a termine con le modalità esposte, sia ove seguita dalla stabilizzazione, sia qualora superi le tempistiche di legge, non può, dunque, essere compatibile, in base ad una valutazione ex ante, con il decorso della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto (ma queste riflessioni possono estendersi a tutti contratti di lavoro flessibili con la P.A.). Ciò in quanto, in primo luogo, essa comporta ab initio o, almeno, dal tempo della sua illegittimità, la nascita di un metus oggettivo del lavoratore in ordine all’esercizio di siffatti crediti, atteso che la detta reiterazione crea, un assoggettamento del dipendente dalla P.A., che ben potrebbe cessare di confermarlo (legittimamente) senza regolarizzarlo. Inoltre, poichè, in questa maniera, è istituzionalizzata una condizione di strutturale inferiorità del medesimo lavoratore, che esegue la sua prestazione sperando di beneficiare di una procedura di stabilizzazione, rispetto al datore di lavoro, condizione che va ben oltre il metus ed è incompatibile con l’applicazione ai contratti de quibus delle comuni regole civilistiche, anche sulla prescrizione, basate sulla parità fra le parti negoziali.
Non è obiettivamente ragionevole che lavoratori, consapevoli da anni di dipendere dalla volontà della P.A. di impiegarli per un ulteriore periodo limitato e di non avere di fatto valide tutele, considerato che già la loro reiterata conferma avviene spesso in violazione della vigente normativa, agiscano contro la propria Pubblica amministrazione per domandare differenze retributive (potendo, così, rischiare di trovarsi privi della loro unica fonte di reddito). […]
Affermare, quindi, che la Pubblica amministrazione, in circostanze come quelle in esame, può beneficiare della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, rischierebbe di consentire un vero e proprio abuso del diritto, che si traduce in una violazione non solo della nostra Costituzione (in particolare, degli artt. 3 e 97 Cost.) e dei canoni civilistici di correttezza e buona fede che la Pubblica Amministrazione deve rispettare nel suo ruolo di datore di lavoro, ma anche della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e, soprattutto, del diritto UE in materia di contratti di lavoro a termine e delle relative sentenze della CGUE. […]”
Da qui i dubbi sulla opportunità di ammettere che la prescrizione debba decorrere dalla cessazione dell’ultimo rapporto a termine o dalla stabilizzazione anzicchè decorrere già nel corso di rapporti precari.
Le SS.UU., invece, con l’enucleazione del principio sopra riportato secondo cui, non essendo configurabile alcun metus, la prescrizione può sempre decorrere in corso di rapporto di lavoro a termine con la P.A., hanno, ad avviso di chi scrive, perso l’occasione – fornita su un vassoio d’argento da una ordinanza di rimessione motivata ed argomentata in modo ineccepibile – di formulare, in applicazione del principio di effettività, un principio di diritto fondato sulla realtà concreta.
Affermano le SS.UU.:
“10. Deve allora essere affermata con chiarezza l’inconfigurabilità di una situazione psicologica di soggezione del cittadino verso un potere dello Stato, quale la pubblica amministrazione, nella fisiologia del sistema.
Esso assicura, infatti, a tutela del lavoratore pubblico, un concreto ed efficiente assetto di stabilità del rapporto, che si articola in concorrenti profili di garanzia attraverso un articolato ed equilibrato sistema di controlli tra poteri e di bilanciamento di interessi, orientato da quello prioritario generale, fondato sui principi dello Stato costituzionale di diritto.
Il sistema garantisce, infatti, il controllo sulla res publica dei cittadini, che si esprime sia nella forma diretta partecipativa attraverso la composizione degli organi costituzionali rappresentativi con l’esercizio del diritto di voto (art. 48 Cost.) e la vigilanza critica sul loro operato come opinione pubblica (art. 21 Cost.), sia in quella mediata delle formazioni intermedie e della loro libera associazione (artt. 2 e 18 Cost.) e, in particolare, delle organizzazioni sindacali (art. 39 Cost.) e dei partiti politici (art. 49 Cost.); non potendo essere sottaciuta l’essenziale tutela dell’accesso al giudice (artt. 24 Cost. e 6 CEDU), anche nei confronti della pubblica amministrazione attraverso la giurisdizione amministrativa (art. 113 Cost.).
Il rappresentato assetto ordinamentale di diritti e di poteri, tutelato dai reciproci controlli di garanzia, assicura pienamente il lavoratore pubblico negli eventuali comprovati casi di patologia del sistema (che, in quanto tale, costituisce deviazione eccezionale dall’ordinario andamento fisiologico), attraverso la responsabilità diretta de“i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici … secondo le leggi penali, civili e amministrative” per gli “atti compiuti in violazione di diritti” (con estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo Stato e agli enti pubblici), prevista dal già citato art. 28 Cost.”
E’ tuttavia evidente, che tale argomentazione, del tutto corretta in linea astratta, non è assolutamente in grado di fornire risposte alle reali storture del sistema evidenziate dalla sezione lavoro della Cassazione laddove i fatti dimostrano costantemente che quella “fisiologia del sistema” richiamata dalle SS.UU., che avrebbe dovuto fornire “concorrenti profili di garanzia”, non è, invece, in grado di tutelare lavoratore da una condotta della P.A. accertata giudizialmente quale illegittima e tale per cui non sia invece pienamente configurabile quel metus che la sentenza esclude.
Come evidenziato dall’ordinanza n. 6051/2023, infatti, “L’affermazione ad es. di Cass., Sez. L, n. 10219 del 28 maggio 2020, per la quale, avendo il datore di lavoro pubblico una discrezionalità vincolata dalla legge e dalla contrattazione collettiva, egli può operare sui dipendenti una pressione decisamente ridotta rispetto a quella del datore privato, perde di significato se la P.A. non rispetta la legge per i rapporti di lavoro flessibile, reiterandoli di fatto senza limiti, e se non si valuta la pluralità di strumenti nella sostanza ritorsivi oggi nella disponibilità del datore di lavoro, che vanno oltre il mero licenziamento o la non conferma del contratto a termine.”.