Con la sentenza n. 31149 del 28.11.2019, la Corte di Cassazione ha fatto il punto sulla ricostruzione di carriera del personale docente, anche in relazione a quanto statuito dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza del 20.09.2018 (causa C 466/17, Motter).
La Corte di Giustizia Europea ha stabilito che “La clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale come quella di cui al procedimento principale, la quale, ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi” comunque “fatte salve le verifiche che spettano al giudice del rinvio”.
Escludendo ogni automatismo, spetta, pertanto, al giudice nazionale verificare, nel caso concreto, se l’applicazione dell’art. 485 del d. lgs. n. 297/1994 determini una discriminazione o meno nella valutazione dell’anzianità di lavoro del docente a tempo determinato rispetto al docente comparabile assunto a tempo indeterminato.
Proprio su questo punto la Cassazione, nella sentenza n. 31149/2019, ha stabilito un criterio che dovrebbe impedire che al docente a tempo determinato sia riconosciuta una anzianità di carriera inferiore rispetto a quella del docente assunto in ruolo e che, nel contempo, però, non determini una discriminazione “alla rovescia”, come si verificherebbe laddove fosse consentito al docente precario di giovarsi di una anzianità pari a quella del docente a tempo indeterminato pur avendo fruito dei benefici di cui all’art. 489 d. lgs. n. 297/1994 in combinato disposto con l’art 11, comma 14, L. n. 124/1999.
La Corte di Cassazione, nei punti 7, 8 e 9, ha espressamente confermato i propri precedenti giurisprudenziali in materia, rimarcando che la disparità di trattamento deve sempre essere sorretta da «elementi precisi e concreti che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi» e che sotto questo profilo non appare decisiva la diversa forma di reclutamento del personale precario rispetto a quello assunto in ruolo, rimarcando che “la verifica che il giudice nazionale, nell’ambito della cooperazione istituita dall’art. 267 TFUE, è chiamato ad effettuare riguarda tutti gli aspetti che assumono rilievo ai sensi della clausola 4 dell’Accordo Quadro”.
Ha poi specificato che “la disparità di trattamento non può essere giustificata dalla natura non di ruolo del rapporto di impiego, dalla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, dalle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e dalle esigenze che il sistema mira ad assicurare” e che la “pretesa differenza qualitativa e quantitativa della prestazione, oltre a non trovare riscontro nella disciplina dettata dai CCNL succedutisi nel tempo, che non operano distinzioni quanto al contenuto della funzione docente, non appare conciliabile … con la scelta del legislatore di riconoscere integralmente l’anzianità maturata nei primi quattro anni di esercizio dell’attività professionale dei docenti a tempo determinato (punto 34 della sentenza Motter) ossia nel periodo in cui … solitamente si collocano più le supplenze temporanee …”.
Ha escluso quindi “che la disciplina dettata dall’art. 485 del d. lgs. n. 297/19994 possa dirsi giustificata dalla non piena comparabilità delle situazioni a confronto e, comunque, dalla sussistenza di ragioni oggettive, intense nei termini indicati nei punti che precedono”.
Ma il diverso – e più restrittivo – criterio di calcolo dell’anzianità del personale docente a tempo determinato è individuato in relazione “all’obiettivo di evitare il prodursi di discriminazioni «alla rovescia» in danno dei docenti assunti ab origine con contratti a tempo indeterminato, discriminazioni che ad avviso del Ministero ricorrente si produrrebbero qualora in sede di ricostruzione della carriera si prescindesse dall’abbattimento, perchè in tal caso il lavoratore a termine, potendo giovarsi del criterio di cui all’art. 489 d. lgs. n. 297/1994, potrebbe ottenere un’anzianità pari a quella dell’assunto a tempo indeterminato, pur avendo reso rispetto a quest’ultimo una prestazione di durata temporalmente inferiore”.
Anche sotto questo profilo, la Corte ha evidenziato che “la medesima norma possa essere ritenuta discriminatoria in un caso e non nell’altro, dipendendo la sua giustificazione dalla ricorrenza di condizioni che vanno verificate non in astratto bensì con il riferimento al singolo rapporto”.
Ciò premesso, la Suprema Corte ha quindi ritenuto che “perchè il docente si possa dire discriminato dall’applicazione dell’art. 485 d. lgs. n. 297/1994 … deve emergere che l’anzianità calcolata ai sensi della norma speciale sia inferiore a quella che nello stesso arco temporale avrebbe maturato l’insegnante comparabile, assunto con contratto a tempo indeterminato per svolgere la medesima funzione docente. […]
In altri termini un problema di trattamento discriminatorio può fondatamente porsi nelle sole ipotesi in cui l’anzianità effettiva di servizio, non quella virtuale ex art. 489 d. lgs. n. 297/1994, prestata con rapporti a tempo determinato, risulti superiore a quella riconoscibile ex art. 485 d. lgs. n. 297/1994, perchè solo in tal caso l’attività svolta sulla base del rapporto a termine viene ad essere apprezzata in misura inferiore rispetto alla valutazione riservata all’assunto a tempo indeterminato.
9.2 Nel calcolo dell’anzianità occorre, quindi, tenere conto del solo servizio effettivo prestato, maggiorato, eventualmente, degli ulteriori periodi nei quali l’assenza è giustificata da una ragione che non comporta decurtazione di anzianità anche per l’assunto a tempo indeterminato (congedo ed aspettativa retributi, maternità ed istituti assimilati), con la conseguenza che non possono essere considerati né gli intervalli tra la cessazione di un incarico di supplenza ed il conferimento di quello successivo, né, per le suppenze diverse da quelle annuali, i mesi estivi … (Cass. n. 21435/2011, Cass. n. 3062/2012, Cass. n. 17892/2015)”. […]
“Qualora, all’esito del calcolo effettuato nei termini sopra indicati, il risultato complessivo dovesse risultare superiore a quello ottenuto con l’applicazione dei criteri di cui all’art. 485 del d. lgs. n. 297/1994, la norma di diritto interno deve essere disapplicata ed al docente va riconosciuto il medesimo trattamento che, nelle stesse condizioni qualitative e quantitative, sarebbe stato attribuito all’insegnante assunto a tempo indeterminato, perchè l’abbattimento, in quanto non giustificato da ragione oggettiva, non appare conforme al diritto dell’Unione.”.
Nella prospettiva adottata dalla Suprema Corte, quindi, il docente dovrà sommare tutti i periodi di lavoro effettivo (escludendo i mesi estivi, ove non compresi nel contratto di lavoro, nonché i periodi “vuoti” tra un contratto e l’altro) e confrontare il risultato complessivo con l’anzianità riconosciuta nel decreto di ricostruzione di carriera.
Solo ove il calcolo dallo stesso effettuato dovesse risultare più favorevole rispetto a quello riconosciuto dal MIUR ai sensi dell’art. 485 T.U., sarà possibile agire in giudizio al fine di ottenere una rivalutazione dell’anzianità di servizio con una nuova ricostruzione di carriera.
E’ evidente, tuttavia, il limite del suddetto criterio laddove, proprio l’esclusione dal computo dell’anzianità dei mesi estivi (trattandosi, per la maggior parte di contratti di docenza fino al termine delle lezioni o al più fino al 30 giugno, quasi mai fino al 31 agosto), in pochissimi casi – per lo più riguardanti precariati di lunga durata – consente di ottenere un’anzianità di servizio complessivamente migliorativa rispetto a quella quantificata dal MIUR nella ricostruzione di carriera, con una inspiegabile “disparità” – a parere di chi scrive – rispetto al trattamento riservato al personale a tempo indeterminato.